La Gilda di San Francesco e il Pittore Serra
(Conferenza tenuta dall’ing. Guido Zucchini il 3 aprile 1911 a Bologna, nella sala del Palazzo Grabinsky-Rossi).
(Testo battuto da Giovanni Paltrinieri nel luglio 2010, dagli originali conservati presso il Comitato: in parte da manoscritto, e in parte da dattiloscritto, operando qualche lieve aggiustamento al fine di ottenere per quanto possibile il materiale servito per quella conferenza).
Signore e Signori, chi aprisse il volume 1° dell’Economia politica del Medio Evo del Cibrario a pag. 53, oppure “l’Histoire des corporations” del Saint-Leon capitolo IV, troverebbe la spiegazione della parola guilde o gilda, derivata forse dal tedesco gelten e dall’anglo-sassone gylta – troverebbe che gilde erano chiamate le antiche unioni di mercanti e di artieri del medio evo, associati per difendersi dalle angherie dei potenti, per tutelare i propri interessi commerciali, per formare un’unità civile forte al punto da non essere sommersa dalle frequenti tempeste di quell’epoca. Ben note sono le gilde tedesche di architetti, di muratori, scalpellini del XII e XIII secolo, sparsi per tutta Europa ad innalzare chiese gotiche: ben noti sono i segni criptografici, o firme, che distinguevano una corporazione dall’altra, formati da linee geometriche, a volte di mottetti liturgici, a volte da gruppi di note non ancora decifrate, incise sui mattoni delle pareti o della facciata della chiesa, sui pinnacoli aerei o nell’intricato gioco di marmi di una rosa.
Se si prende invece un vocabolario bolognese si trova che gheldria significa riunione di gente di malaffare, combriccola, masnada, ecc. ecc. – Ora io non so per quale arcana ragione etimologica sia avvenuto questo cambiamento di significato; tanto più che qui in Bologna le corporazioni d’arti e mestieri non erano così persistenti e irrequiete nelle domande d’aumento di salario, nei malcontenti, negli scioperi da giustificare il cambiamento di gilda, intesa medioevalmente, in gheldria – Fatto sta che ora le gilde non esistono più: esistono le leghe, che sono come l’evoluzione delle antiche loro consorelle, con, in più, il sole dell’avvenire, che a quelle mancava. – Ma qui in Bologna, parecchi anni or sono , rinacque una antica gilda, composta di artisti e vive ancora, un po’ mutilata, sotto la bella torre campanaria che Antonio di Vincenzo innalzò vicino al S. Francesco, gettandole attorno una rossa trina di forme gentili, aprendole i fianchi con rapida progressione fino alla cella, alta nell’azzurro, sonora di grandi ondeggiamenti e delle acute grida dei falchi.
Vive la nuova gilda accanto alla piazza, ove d’inverno il sole è più tiepido e dolce l’aria, dove or non è molto, sorgeva confusa e mattiniera la città dalle mal connesse tavole, dai vicoli tortuosi tra l’ammassarsi degli umili doni della natura, il variare dei semplici oggetti casalinghi, l’incessante vocìo del popolo e rapidi balenii di bellezze paesane, scintillando al sole gli smalti e i marmi degli antichi sepolcri.
Pochi composero la nuova compagnia: i principali furono Rubbiani, Tartarini, Casanova, Sezanne e Collamarini. Uomini dall’anima moderna, innamorati dell’antico, tenaci nelle idee, assidui nell’azione, poeti e giambardi nell’arte. In nessun vocabolario italiano o dialettale si cercherebbe quest’ultima parola; essa è il motto della gilda di S. Francesco. Giambardo è chi aspira all’arte libera, poetica, naturalistica, è ciò che esce di volo dalla fantasia e dal cuore, rotti i freni delle cognizioni, e abitudini e lacci tradizionali: è ciò che si crea, ma umilmente, con sottomissione. Il ragazzo di studio che disimpegna le incombenze minute, che serve tutti, non si chiama in dialetto “giambardel”? Alla parola “giambarderia” è contrapposta l’altra “accademia”. E davvero qui a Bologna l’accademia è ben distante da S. Francesco: non sorriso di verde, non poesia di vita popolare o di solenne architettura anima la sede dell’Accademia, ove lunghe file di figure di gesso polverose e annoiate riempiono l’aria di odore di regolamenti, leggi, decreti ufficiali.
E come sembra naturale che gli artisti della gilda, vivano accanto alla chiesa del santo di Assisi al quale li lega l’amore comune per le cose, per le piccole bontà e umiltà terrene, per le nascoste poesie della terra, così sembrerà profetico riavvicinamento l’attuale dimorare dell’Accademia in quello che fu convento dei Gesuiti, in quella che fu la chiesa di S. Ignazio, il fiero santo spagnolo che portò alla compagnia da lui così militarmente organizzata un grande impeto combattivo e la magnificenza vanitosa della sua nazione, così in contrapposto alla semplice ed umile individualità francescana. La guerra fra S. Francesco, e l’Accademia – ossia S. Ignazio – era inevitabile: e guerra vi fu varia, accanita, violenta, e la vittoria finale, come vedremo, è rimasta a S. Ignazio. Ma ora, nei tempi nei quali siamo, S. Francesco si è dovuto ritirare sconfitto. Era costume degli antichi cantare i …. Della vittoria, le lodi del vincitore; e bene spesso al generale che tornasse dalla guerra soccombente erano riservate prove dolorose, quanto quella del taglio della testa. Ma i Romani, nell’epoca loro più fulgida, quando Varrone tornò da Canne memorabilmente battuto da Annibale, a lui mossero incontro fuori di Roma, e festosamente l’accolsero perché non aveva disperato di sé, dei suoi, di Roma. Al posto di Varrone mettiamo la gilda; importi ch’io nomini Rubbiani, Tartarini, Casanova, Sezanne, ecc. ecc., e vediamo quanto essa ha fatto per meritare la sconfitta.
L’11 luglio 1888 moriva qui a Bologna Luigi Serra. Da Roma ove si era stabilito, era venuto nella sua città, ove aveva la madre e alcuni amici, per morirvi, come egli diceva, sorridendo mestamente. Per l’ultima volta una sera di estate di quell’anno gli amici lo ebbero tra loro a convito dove il Reno tranquillo scende ad abbracciare le falde del monte di S. Luca, e già il male interno che affliggeva l’artista e neri presentimenti oscuravano l’aperta e bella chiarezza del suo viso e del suo sguardo. Pochissimi d’Italia fecero eco alle parole di dolore che il Panzacchi pronunziò davanti alla bara e si associarono al compianto. Poi silenzio. Per lunghi anni il nome del Serra sembrò dimenticato. La sua memoria viveva nel cuore di pochi amici, dei quali, uno fu a lui quasi fratello, artista anch’esso ben degno per altezza di concetti e valentia di mano, di stare al pari del Serra: lo scultore Enrico Barberi….
Nel 1903 furono esposte a Venezia alcune opere del Serra, ma passarono inosservate: or sono due anni un editore di Roma ha pubblicato i disegni di lui, posseduti dalla Galleria Nazionale di Roma: i critici osservarono e… Non gli arrideva la gloria quando giovanissimo vinse il pensionato Angiolini, la pensione artistica triennale, e il concorso per il sipario del teatro di Fabriano ed ebbe commissione di dipingere le grandi figure della chiesa di S. Bernardo ora distrutta. Meravigliò il suo primo quadro “Annibale Bentivoglio nel carcere di Varano che attende la liberazione da Galeazzo Marescotti”, per l’audacia del taglio e della prospettiva e per l’intonazione violenta. Ma non fu un quadro del tutto rivoluzionario per quell’epoca. Non erano propizi all’Arte Bolognese gli anni tra il ’50 e il ’60 passata attraverso allo stilismo classico dei primi del secolo, quando alle supreme eleganze fatte dei Greci si aggiunsero fredde vanità dei nostri geometrici, passata attraverso al romanticismo acuto del ’30 e del ’40, presi in prestito dal medioevo, del quale nessuno cercava studiare a fondo l’anima, fatti epici e rumori di battaglia – buoni per riscuotere per le lettere – dolci innamoramenti a lunghi chiarori di luna per il teatro, raffazzonati edifizi per l’architettura gotici, buoni indifferentemente quali scenari di un’opera in musica e quali castelli da giardino ad uso di scuderia o di serra da fiori. L’arte bolognese, dico, si trovò a metà circa del secolo, sperduta e tentennante fra l’insegnamento accademico che intendeva ritornare alla tradizione caraccesca, e si perdeva nella religiosità melodrammatica di un Masetti , di un Guardassoni, di un Montebugnoli, e una smania di nuovo e di vero accennata qua e là timidamente, sostenuta a spada tratta dai macchiaioli di Toscana e di Roma.
Sempre migliore – per esempio del Guardassoni – che dipingeva senza modelli, allagando le chiese di inespressive e cartacee figure d’angioli, sarebbe riuscito il Serra, se avesse seguito il suo temperamento impulsivo, colorista, tendente ai tiepoleschi; e certamente la fama avrebbe arriso a lui in più breve tempo, e con essa guadagni. Ma egli, il Serra, mosso da un’adorazione per la natura, da una specie di sbigottimento nell’intuire quale proficua è la missione dell’artista, che deve interpretare, ritrarre, nobilitare gli infiniti aspetti di quella, scese in campo contro tutti e contro se stesso, abdicò la sua facilità di comporre, la sprezzantezza del colore, la fantasia dell’ideare, e si tolse quella che egli credeva maschera davanti agli occhi; e con un meraviglioso gesto d’artista, affrontò la natura. Oh, come egli sentiva la verità del detto di Leonardo: “Siate figli della natura, non nepoti”: come sembra la falsità di chi, sono sue parole, “Chiuso nello studio di 4 mura color cenere crede di pensare davanti a un mucchio di cenere, o ad un cretino che sta fermo bene!”. Come giustamente esclamava “L’arte della pittura ha ancora la scabbia della letteratura passata”……gridano come i Re – nelle città, per quanto popolate, non incontri che quei 4 o 5 personaggi della tragedia dai passi cadenzati e a sghembo. In quel passo si vedeva il delitto, quel passo faceva rabbrividire, quel passo era l’arte!
Per lunghi anni, fissa la mente e tesa l’anima e le forze tutte a scoprire il segreto delle continue magnificenze della natura sia nelle sue forme infinite sia nei suoi infiniti colori, il Serra attese a disegnare gli atteggiamenti naturali delle cose, delle persone, dei luoghi. Bisogna aver veduto le migliaia di disegni ora a lapis ora a penna ora macchiati all’acquerello che il Serra veniva man mano compiendo tutti i giorni a Venezia, a Bologna, e i più a Roma. Tutto quello che passava davanti ai suoi occhi egli d’un subito incideva sulla carta con rapidità fantastica, senza esitare, come a colpi di bulino. E speciale amore aveva per ritrarre oggetti e persone in movimento: sicché davvero in alcuni disegni l’ondeggiare della folla, costretta ai lati di una via in attesa di un funerale o di una processione, il vario agitarsi di un mercato, l’irrequietezza di un popolo in festa (e sempre i fondi sono meravigliosi per prospettive nitide e luminose) è resa con una sintesi, con tale perfetto senso del vero quale si riscontra nei disegni di Leonardo. Reso sicuro del disegno, si diede alla ricerca del colore e vorrei che moderni critici, per i quali il Serra è senza cuore, giacché, ugualmente preciso per una faccia come per un fiore, per una nuvola come per un sasso, così è stato scritto, vedessero una buona volta senza gli occhiali della moda vedessero gli studi di paese, di fiori, di cieli e nuvole, i bozzetti tutti per i quadri e gli affreschi, da quelli per i Coronari, per l’Irnerio nel quale secondo Carducci “l’Arte è spirito profetico della storia”. Per la soave Madonna del Cestello troppo poetica per la grettezza dei committenti, a quelli meravigliosi di grandiosità e intonazione presentati al concorso per decorare l’aula del Scordato (?) – concorso vinto dal Maccari – e vorrei si convincessero che per criticare l’arte non basta avere come in musica l’orecchio musicale, un cuore nel petto e non una buona penna più o meno stilografica, ma occorre avere sentimento.
La gloria stava per raggiungere il nostro artista, quando la morte sopravvenne: egli aveva 4 anni. Non posso ora, e me ne duole, parlare più a lungo delle sue opere e della sua vita. L’una e le altre torneranno fra breve in onore. Mi basta aver accennato, saranno venute secondo il loro merito e si vedrà allora come solo per aver direttamente ai principi, che egli andava predicando, studiato la natura, egli possa aver avuto punti di contatto con pittori del Quattrocento e in ispecie con quelli che alla serenità della composizione, alla minuzia dei dettagli, alla perfezione delle forme aggiungevano bagliori di preziosità, forse di derivazione orientale.
Da quelli artisti della gilda bolognese, dei quali vi parlo, non allevati da accademie, non ligi a canoni di questa e di quella scuola, venuti su come fiori di campo, si trovarono col Serra e da lui ebbero l’insegnamento.
Terminata così la commossa rievocazione dell’artista scomparso, il conferenziere prosegue – né possiamo seguirlo con l’ampiezza e fedeltà del resoconto, come vorremmo passare in rivista tutta l’opera artistica esercitata dalla gilda di S. Francesco, da essa restituita al culto e all’ammirazione degli amatori.
Venticinque anni or sono – nel 1886 – un gruppo di cittadini si trovò davanti all’arcivescovo di Bologna presente l’intendente di Finanza, il Sindaco, il Direttore del Genio Militare ed ottennero che il Governo cedesse al Municipio e questi all’arcivescovo la chiesa di S. Francesco, ridotto fin dal 1866 a magazzino e caserma, al fine di riaprirla al culto e ridonarla all’arte. Essi erano il conte Nerio Malvezzi, il conte Tommaso Boschi, il conte Francesco Cavazza, il conte Giuseppe Gabrinski, il marchese Carlo Pizzardi, il conte Luigi Salina, e il cav. Alfonso Rubbiani.
Nel maggio del 1886 30 muratori si portarono sul fianco della chiesa che guarda la piazza del Mercato e il restauro cominciò.
Molti si ricorderanno dell’aspetto di S. Francesco in quegli anni, quando il primitivo e slanciato organismo era affogato dalle insignificanti aggiunte più recenti, quando ai due bracci del transept erano stati aggiunti due immensi e freddi cappelloni, quando lungo i fianchi erano state costruite numerose cappelle sporgenti, come a un dipresso si vede in S. Domenico, quando nel centro dell’abside un altro cappellone barocco si univa al portico della seliciata, fiancheggiato dal grande arco d’ingresso del convento, sicché le antiche cappelle absidali e gli archi rampanti sembravano ritirarsi mortificati davanti a tanto rigolio di vane architetture. I guasti mutilati, frammentari facevano capolino qua e là, i sepolcri dei nostri glossatori, che amarono piuttosto essere confessi, suffragati e sepolti dai frati minori di S. Francesco che dal clero secolare, acerrimo nemico di quelli, ai quali accusava per quanto questo rimproverasse e quelli acerbamente ai francescani di fare accorrere nelle loro chiese tutto il popolo, di confessare secolari, di accettare i doni dei fedeli, ai quali rimproveri si aggiungevano quelli dei giullari, che ta….menavano i frati di essere troppo amati dalle belle donne – nel sinodo di Ravenna, però, del 1250 circa Alessandro IV scagliò ben amare invettive contro il clero secolare “più feccia, che uomini santi” come scriveva fra Salimbene.
Ridotto a contenere i ferravecchi dei contatori del macinato era il sepolcro di Accursio, del grande glossatore delle leggi – di lui dice l’antico epitaffio, il corpo dato ai vermi perirà, ma lo spirito sarà immortalato – malamente murato sotto al portico della seliciata il sepolcro di Odofredo, detto luce di pro…rdo diritto, il fiore dei dottori – scomposto e demolito fin dal 1804, quando sembrò un nascondiglio notturno per i birbanti, il sepolcro di Rolandino Romanzi, forse il primo scrittore di diritti criminale.
Lungo fu il lavoro attorno e dentro la chiesa e disagevole. Fu un grande autunno, faticoso lavoro in quegli anni tutt’attorno alla chiesa per gli artisti della gilda – prima sul fianco verso il mercato, poi nella facciata, poi nell’abside e nelle tombe dei glossatori, poi nell’interno nel decorare volte, pareti, e le cappelle raggianti del pour tour, poi nel fianco verso Sud, nell’oscuro antro, per il quale da Piazza Malpighi si accede alla chiesa, detto dall’ing. Ceri “l’antro di Paco (o Caco)”, poi di nuovo all’interno nell’organizzare il coro, le sue chiusure, i suoi stalli, il suo cancello. Venticinque anni di lavoro e quattrocentomila lire circa di spese. Nel maggio del 1886 la cassa della fabbrica non aveva un centesimo: fino a tutt’oggi si saranno spese circa 400.000 lire. E in questi venticinque anni, quante lotte, quante invidie, quante malevolenze, quante critiche! Come agguerrito scese in campo S, Ignazio (o l’Accademia) a combattere i restauri, le policromie, le rovine che si diceva compiersi nella storica chiesa; quante commissioni regionali, governative, precedute da sospensioni e libelli, fino un giornaletto pubblicato appositamente intitolato “Il Sublimato”, che doveva spazzar via, disinfettare Bologna da quei pochi artisti che si permettevano di lavorare così bene senza diplomi o titoli ufficiali.
La prima sede della gilda fu una piccola bottega da ciabattino situata nella Piazza del Mercato. Chi passava per la piazza, spiando dai vetri della porta, vetri dipinti affinché sembrassero opachi, poteva vedere Rubbiani dalla figura aristocratica, lunghi capelli, occhio vivace, espressivi il gesto e la parola, descrivere il famoso predicare di S. Francesco in sulla Piazza di Bologna, e il misticismo violento e amoroso del sec. XIII e il sorgere, come un fiore improvviso, delle slanciate forme ogivali della chiesa. Attenti, intorno, ascoltavano Tartarini dalla parola arguta e dalla fisionomia aperta, Casanova grave racchiuso nella nera barba da guerriero assiro, l’irrequieto e sorridente Collamarini in atto di tradurre in carta velocemente quanto il Rubbiani veniva descrivendo, l’attento e calmo capomastro Moruzzi, nel quale io credo riviva l’anima di qualche antico magister muri. A questi spesso si univa l’alta figura di mons. Breventani, apportatrice di una scoperta d’archivio, di una interpretazione storica, di una fila di freddure. Tra quegli artisti non tutti nuotavano nell’oro; qualcuno doveva ricorrere a fatali imprestati, si che non era difficile veder spuntare sopra ai vetri opacati della porta l’occhio vigile e interrogativo di qualche creditore mentre le spalle di chi stava dentro s’incurvavano premurosamente sui disegni.
Il piccolo gruppo procedeva serrato all’assalto delle brutture aggiunte attorno a S. Francesco, lieto delle proprie forze, incoraggiato dall’aristocrazia più intelligente, aiutati dall’oscuro obolo di molti, spronato dalle contrarietà degli artisti bolognesi, che spesso servivano di divertimento. Che fare se non sorridere al leggere questo cartello trovato una mattina attaccato al muro della cappella di S. Bernardino, quella che ancora si vede protendere i suoi contrafforti, coronati da un sorriso di putti quattrocenteschi e che si era, allora, incerti se demolire o no?
“Dottore o Professore che sia, che si è impegnato di eseguire l’operazione a S. Francesco di levarle le natte che vi sono nate d’attorno al corpo: osserva bene, Sig. Professore, di stirparle tutte indistintamente che il suo corpo ritorni nel primo stato come madre natura lo creò perché a quanto si dice questa bellissima natta si conserva e conservandola il corpo resterà infettato e con l’andare del tempo le natte si producono e in alora, Sig. Professore, avrebbe fatto un’operazione da ciarlatano come fa il Venturini che cava le natte e si riproducano, dunque, Sig. Professore se non vuole fare figura da ciarlatano, presto metta il martello a stirpare anche la bella natta che io veda sino che son vivo ed apriranno la cassetta delle offerte e troveranno una offerta destinta. P.G. “
Che fare se non sorridere quando Padre Serrazanetti, guardiano della chiesa, fuggiva all’apparire di Rubbiani, nel quale egli credeva vedere un diavoletto e correva a benedire le muraglie, affinché il diavoletto Rubbiani non riuscisse a demolire?
Poi lo studio e la fabbriceria emigrarono. La gilda cambiò dimora e s’adattò in una di quelle casine demolite pochi anni or sono lungo la Piazza Malpighi. In uno strano corridoio, nel quale s’apriva la porta dello studio e della fabbriceria, quella di una levatrice e quella formata di una ramata attraverso alla quale si vedeva un avvocato azzeccagarbugli, seduto in un gran seggiolone, con in capo un gran beretto, e attorno per la stanza alcune galline.
Pochi erano nei primi anni i forestieri che visitavano S. Francesco e non poca soddisfazione fu per i nostri artisti, quando un vecchio signore, dalla lunga barba, trovatili in S. Stefano intenti a copiare alcuni motivi da un reliquiario, rivolse loro la parola in francese e dopo essersi interessato a quanto essi ricercavano, e confessando che anche egli alle volte disegnava e dipingeva, mise fine al freddo colloquio, presentando il suo biglietto: vi era scritta una sola parola “Meissonier”. La presentazione fu seguita da un improvviso e riverentissimo levarsi di capello e, più tardi, il celebre pittore visitò i lavori di S. Francesco e altamente li lodò.
Ora la chiesa esternamente è finita – ecco l’abside colla corona di archi rampanti: ecco le tombe dei glossatori, così serene nel ricordo delle arces orientali. Presto un giardino sorgerà dove era il mercato, sì che una pace grande sarà fatta su quel terreno, che fu il cimitero della chiesa e dove stanno nascosti e confusi gli avanzi di uomini di legge, d’armi, di religione a quelli di dame e di umili donne del popolo. Nell’interno, ridipinto nel 1840-45 coll’intenzione di rifare la decorazione medioevale, ma disarmonico e volgare, l’abside è interamente compiuta, dipinte di nuovo le volte con criteri più razionali e una maggiore conoscenza delle decorazioni murali del secolo XIV aggiuntosi il coro magnificamente intagliato e il gran cancello di ferro, attraverso al quale si vede sorgere il piccolo paradiso di marmo che sta sull’altare.
Il primo restauro di edifici civili fu quello della Mercanzia: poi venne quello dello Spirito Santo in Val d’Aposa: e in ambedue fu coraggiosamente rinnovata la brillante policromia di rosso e oro che fece tanto muggire gli Accademici.
Nella Mercanzia fu restituita all’antica severità la parete sotto al portico, nella quale i restauri del 1837 avevano aggiunto una porta più o meno di stile, a pendant di quella che già esisteva a destra di chi guarda.
Piccola nota gentile fu l’aver ritrovato fra due assi della porta del ’37 tre pezzetti di panno, bene uniti fra loro, uno bianco, uno rosso, uno verde: un moto di simpatia va verso l’oscuro falegname che volle così attestare l’intensa speranza, la viva sua fede nel simbolico tricolore in anni pericolosi di esilii e di prigionìe.
Ho detto che l’aristocrazia bolognese favoriva i restauri di S. Francesco: aggiungo che rispose con fervore anche agli altri appelli che il piccolo gruppo di artisti faceva ai cittadini. La fama che Bologna ha avuto, fino a qualche mese fa, quale prima città d’Italia nella cura amorosa dei suoi edifici, nello sviluppo di un’arte nuova serenamente paesana, si deve in gran parte all’intelligenza, al buon gusto, al censo, all’aiuto in una parola che poche persone diedero alla gilda francescana.
Ben malconcio e mutilato era nel 1889 il castello di Poledrano detto del Bentivoglio, presso S. Giorgio di Piano. Demolite le mura di circonvallazione, livellate le fosse, scomparsi i rivellini, precipitata l’ala di ponente e divise le ampie sale in bugigattoli ove si annidavano i braccianti. Ah! Troppi anni erano passati sulla magnifica villa di Giovanni II che ivi traeva con splendido corteggio ad incontrare principi e ambasciatori, a festeggiare il matrimonio del figlio Annibale con Lucrezia di Este, a disperdere in cacce e conviti i neri pensieri e il terrore di Giulio II.
La gran villa si animava in quei giorni e risonava di gioie e allegrezze; ridevano al Sole le rose affrescate nel cortile allacciate dal motto “domus iucunditatis” casa di giocondità: attorno al pozzo marmoreo s’aggruppavano donzelle e cavalieri.
Il Marchese Pizzardi affidò a Rubbiani e ai suoi il restauro del Castello, condotto tra non lievi disagi e con gran dispendio. Curata la restituzione della Rocca più antica, spazzato via quanto ingombrava le sale, rifatti i soffitti logori e marciti, furono ricercate e rinfrescate le pitture dei corridoi e delle sale ricche di emblemi araldici, quali il leopardo bentivolesco, di fiori simbolici, di allegorie umanistiche. Risorse l’elegantissima cappella barbaramente imbiancata, rividero la luce le placide figure di apostoli che l’arte ferrarese aveva dipinto dentro scomparti architettonici e a ricordo dell’antico signore furono aggiunte le statue di Giovanni II e di Ginevra Sforza, fortemente modellate dal Romagnoli.
Smontando dal treno a S. Giorgio, il Castello appare in fondo al lungo stradone come velato dalle nebbie basse delle risaie; ma dall’alto della sua torre che protegge la villa e il piccolo borgo operoso, si abbraccia gran parte della bella e sconfinata nostra pianura, solcata dal tortuoso brillare del canale di Reno, ravvivata dai piccoli e fermi specchi delle risaie, melanconica per lontani canti e lunghe fila di pioppi.
Ugualmente romantico, ma più severo, più medievale, più militare, mi apparve un giorno di ottobre il Castello di S. Martino dei Cavazza. Esso è l’ultimo campione dei manieri costruito all’antico: è un castello in ritardo, rifatto quando il periodo feudale era già passato e i tempi si svolgevano alla pace, non senza però che convenisse dare lla propria dimora attitudine di difesa per eventuali colpi di mano delle ultime compagnie di ventura. Così dovette pensare Francesco Ariosti alla metà del ‘300: né diversamente quelli dei Manzoli, che, divenuti padroni del Castello vi lavorarono assai nei primi del sec. XV. Il restauro conservò le tracce delle due epoche, limitandosi a togliere via quanto di aggiunto dopo snaturava l’edificio.
Il discorso che Giovan Battista Bombello lasciò nel 1577 sul “Castello e pitture di S. Martino delli illustrissimi signori conti Alessandro e Giorgio Mangioli”, rammenta numerose pitture e motti e stemmi sparsi nelle camere e nelle sale: ma tutto è andato perduto, meno la policromia araldica della loggia d’ingresso. Per gli altri ambienti fu intendimento del proprietario, non di fare opera di vero restauro, ma di diminuire l’anacronismo fra l’esterno e l’interno, adattando e parafrasando vecchi motivi.
Non fu difficile ai nostri artisti, che già si erano resi pratici della tecnica e della ispirazione decorativa del medioevo a loro necessarie per reintegrare la primitiva pittura delle volte e delle pareti di S. Francesco, di assimilarsi e impadronirsi delle forme civili di decorazione usate nel Quattrocento, di quello che in arte si può chiamare quattrocento minore, privo cioè, di figure e di sculture, ma vivo di sottili armonie, contento di un fregio ove brilli a quando a quando uno splendore di gemma, signorile in un abito di dama come nel più umile degli oggetti.
Fu rivolta l’attenzione a quelle piccole miniere di motivi quattrocenteschi quali sono i fondi dei quadri, le miniature dei corali, le silografie e le incisioni, le raccolte di antichi disegni – e questi motivi furono applicati, svolti, modificati secondo il luogo o la cosa da decorare.
Così le pareti della sala da pranzo del Castello di S. Martino, arieggiano quelle del Bentivoglio. La pittura è allusiva alla felicità della famiglia, rappresentata da una coppia di alcioni “alcynum tranquilla foelicitas” – il lampadario è tolto da un quadro del Carpaccio.
Così alcune sale del Palazzo Bevilacqua, nobilmente restaurato in tutte le sue parti, furono uguagliate per armonia ed eleganza alla facciata bella tra le belle.
Augusto Sezanne nel decorare la Casa Stagni, costruita alla fine del ‘400 ma rimasta incompleta e disadorna, riuscì a dimostrare come lo stile della Rinascenza si presti alle più felici movenze, all’espressione più giusta della casa borghese. Da tempo il popolo chiamava Canton dei Fiori la casa Stagni – e il Sezanne distribuì fiori parlanti simboli di virtù civili e private – la rosa per l’amore, l’acanto per l’arte, l’alloro per la gloria, ecc. ecc. – nella facciata, sia nel fregio sotto lo sporto, sia in quello sotto le finestre del 1° piano nobile, sia nel balcone di marmo ad intagli policromi di rose, viti e melograni, piccola oasi di grazia per gli occhi di chi viene dalla grigia stagione e dalle grottesche e fredde case di via Indipendenza. – In questo punto centrale è un grande affollarsi nel sabato di giacche di fustagno e di sani volti abbronzati: qui la campagna manda i suoi uomini a mantenere il legame colla vita cittadina – nelle volte del portico si svolgono i tradizionali momenti dell’agricoltura bolognese, già vicini a scomparire del tutto – la trebbiatura del grano fatta col batdur – greve cigolante sullo sgranarsi delle spighe mature, mentre gesti cadenzati e urla animatrici di bovi si elevano tra un sottile polverio dorato – la filatura della canapa, per opera di fanciulle curve sui rumorosi telai, pieno il cuore di speranze e di amore – il trasporto del mosto già versato nell’ampia castellata rilucente, adagiata sul pesante carro ricco di intagli e di borchie e di motivi barbarici, che i bianchi buoi lentamente conducono al suono argentino del sistro.
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Col desiderio di imitare la facciata della Madonna di Galliera fu costruita la piccola chiesa di Venola presso Marzabotto, dipinta all’interno a lieti colori: la piccola chiesa a quanti velocemente dal treno, che la sfiora, vi gettino uno sguardo e un senso di ammirazione, appare come un rosso fiore sorto a specchiarsi nella garrula corrente del Reno. Più semplice, direi, più tecnico è lo stile del mulino Pizzardi, che sorge vicino al Bentivoglio, dove furono utilizzate nei camini esterni, nelle mazza a traforo e nel cornicione diverse combinazioni di mattoni.
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Molte altre cose la gilda operò qui e fuori, mantenendosi attaccata a forme antiche, finché una visione più larga e vasta ne modificò l’indirizzo.
Perché non tentare una decorazione, ancora foggiata sul ceppo quattrocentesco, ma libera di movimenti, di espressioni, di atteggiamenti? Perché non studiare forme del tutto diverse dalle antiche, non rinnovare il repertorio decorativo, con elementi tratti direttamente dalla natura?
Così aveva proceduto il Serra nella sua arte insorgendo contro il manierismo dei romantici o quello dei novelli caracceschi – i nostri artisti vollero dimostrare quanto fosse vacuo l’illusionismo tipo Samoggia, allora di moda, incerto tra l’imitazione di un tardo Cinquecento e quella di un freddo barocco, palladio degli Accademici privi di sentimento.
Lunghi e appassionati gli studi che Rubbiani, Tartarini e Casanova e gli altri fecero prima sugli Appennini nelle verdi conche montane, ove fioriscono gli anemoni, l’eglantines, le felci e più in su l’odorose ginestre, poi nella bassa pianura e nelle valli alla ricerca di ninfee, gigli e sottili giunchi: e l’entusiasmo era tale che una volta poté vedersi uno di loro, tenuto a catena dagli amici, tuffarsi nell’acqua e protendersi alla conquista di un fiore sconosciuto.
Una delle prime volte che quest’arte naturalistica ebbe campo di sbizzarrirsi fu a S. Martino dei Manzoli, quando i proprietari organizzarono con sottil senso pagano la festa della primavera – piccole botteghe furono costruite con legni e stuoie, come ancora si vedono nei mercati di Provincia, nel giardino attorno al Castello, e ciascuna aveva un’insegna designata a fiori con un motto a questi allusivo. A quante signore eleganti là convennero e ai cavalieri fu dato un fiore corrispondente all’insegna di ciascuna bottega e io penso con quale adornato stile il Bombello avrebbe descritto il lieto muoversi delle coppie alla ricerca delle botteghe e il più lieto assidersi alle mense, che dentro a quelle erano imbandite, mentre il sole radioso di primavera illuminava l’improvvisato e fiorito villaggio!
Due salotti di Casa Cavazza furono decorati col nuovo stile, sia in un soffitto a pavoni e gigli, sia nei mobili intagliati dove ogni più piccolo angolo ha un’intenzione e una forma ad essa relativa.
Come succede a quasi tutti gli inizi di arti nuove, il desiderio di dire troppo nuoceva all’insieme: la mano non era ancora così esperta da liberarsi di un verismo troppo crudo: mancava quella perfetta fusione tra l’indeterminatezza, che è poesia, di quanto il cuore suggerisce e la sua traduzione in disegno.
Nell’appartamento del marchese Carlo Pizzardi tale fusione è raggiunta. E mi dispiace non potere qui mostrare il salotto, dove, nel fregio, sono dipinte le infanzie del giorno, dell’amicizia, della notte, dell’amore sopra un leit-motif di gigli, simbolo dell’innocenza – la sala da pranzo adorna di un ricco postergale e di una credenza di legno colle rappresentazioni in intaglio dei segni dello zodiaco e delle stagioni, al favore delle quali la terra genera gli alimenti – la sala della musica dipinta nell’alto, a pavoni accoppiati, che si dissetano alle fonti della soavità, dell’amore, ecc. – la sala da studio, nella quale gira tutt’attorno una alta scanzia allusiva, nella decorazione, alla felicità degli studi.
E’ stato detto che pochissimi possono afferrare il senso dei lunghi discorsi adombrati colle nuove decorazioni: ma che importa? Forse che la musica di Beethoven, la musica pura delle sinfonie arriva meno al cuore e meno vi suscita indistinti sensi d’irreale e nostalgici desideri di quanto potrebbe fare se l’autore avesse scritto la guida delle proprie intenzioni? D’altronde è ben riconosciuto in arte il principio di operare seguendo sempre la guida di un’idea, che non potrà non essere compresa da tutti, ma che aiuta ed aggiunge distinzione all’opera d’arte. – Quando un celebre predicatore, recatosi pochi anni or sono a visitare le cappelle di S. Francesco disse che sarebbe stato bene apporvi una lapide che spiegasse il significato di ciascuna, disse una cosa che sembrò spiritosa e che in realtà è sciocca. Le decorazioni di quelle cappelle possono essere gustate anche senza spiegazione, specialmente da chi non sia solito entusiasmarsi a freddo secondo il numero degli asterischi del Baedeker. Sono sicuro che questi non precederanno mai nelle guide la descrizione delle cinque cappelle – i piccoli inni poetici, le intonazioni calde, brillanti qua e là d’oro, le rifrazioni così dolci dei vetri istoriati di ciascuna di quelle, non saranno mai classificate nelle cose importanti della città, visibile per i forestieri in poche ore.
La cappella Calzoni è allusiva alla vita di S. Francesco e all’amore che l’accendeva: sulle pareti sono dipinti cuori raggianti racchiusi dalla cordigliera e dal motto “in foco amor mi mise”.
Nella cappella Spada sopra la cerchia di Bologna, raffigurata nel basamento, fiorita in basso di ninfee, in alto di garofani, si eleva il palazzo antico del Comune, adorno di fiori e di stendardi. Bologna è in festa giacché lo Studio emigrato con numeroso stuolo di Professori e scolari a Castel S. Pietro causa un interdetto del Papa, ritorna finalmente nella sua città per intercessione del Beato Guido Spada, al quale la cappella è dedicata.
La cappella centrale è un inno per la pace dei popoli, la concordia sociale – Nelle volte è l’armonia del cielo astronomico quale esempio di ordine agli uomini – un una lunetta il primo patto di pace tra Dio e l’uomo, posata l’arca sull’Ararat e tornata la colomba coll’ulivo – nell’altra l’annunzio profetico di S. Giovanni “la croce stenderà le sue braccia sulla verde distesa terrestre”, e “fient unum ovile et unum pastor” – Abbondanza, amica della pace, di frutti e fiori salgono su per le nervature – il fregio racchiude il girasole, simbolo della fedeltà, e motti di pace raggianti d’oro – Nell’elegantissima lampada di vetro e ferro parole di speranza e foglie di auspicale trifoglio girano attorno alla fiamma centrale: una sbrigliata fantasia di zygopetali sale al cielo, come una preghiera.
La cappella Santi simula una serenata in onore della Madonna: dallo zoccolo ricco di festoni, tra il brillare delle profumiere e l’andeggiare di quieti vortici d’incenso nasce un pergolato di candidi gigli, tra cui nell’alto pendono lampade con aureole d’oro.
Ancora più moderna per esecuzione è la cappella Boschi, dipinta a raffigurare un piccolo cimitero di campagna al quale facciano cornice bruni cipressi e ghirlande di bianchi papaveri e al quale stia intorno un muro abbarbicato di umili pianticelle.
Il cupo azzurro della volta si attenua e si tramuta in un’alba soave, dove ancora brilla qualche stella: alba di risurrezione.
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La nuova tendenza, l’ars nova iniziata dalla gilda si disciplinò in società e chiamò Aemilia Ars. Già fuori d’Italia e specialmente in Inghilterra, dopo che i prerafaeliti avevano intenzionalmente insegnato ad inspirarsi nella poesia dei pittori quattrocenteschi, dopo che il Ruskin aveva predicato un ritorno sincero alla natura e diceva “siate felici, anche se solo dalla vostra finestra non vedete che uno spazio di cielo e la punta di un albero in fiore” erano nate piccole collettività artistiche, dalle quali furono rimessi in onore antichi modi di operare a contrapposto dell’industrie meccaniche e troppo commerciali.
Senza che una sapesse delle altre, giacché a Bologna non erano arrivati quei lontani aneliti di bellezza, l’Aemilia Ars sorse e si diede a foggiare nel nuovo stile mobili, gioielli, rilegature da libri, cofani, pizzi, senza che mai fosse perduta di vista la tradizionale signorilità dell’arte bolognese.
Lo studio di S. Francesco si riempì allora di artisti e disegnatori e si spera che il serafico santo non abbia sentito o abbia finto di non sentire le scapigliate conversazioni di quei giorni nei quali tra il fervore del lavoro, i suoni di uno sgangherato ariston che aveva per ufficio di animare gli spiriti stanchi, le discussioni artistiche e campaniliste, si veniva preparando il materiale per l’Esposizione di Torino del 1903, esposizione che ad alcuni parve la sconfitta dello stil nuovo, ad altri diede nuove forze per proseguire nella via intrapresa.
Né mancarono allegre burle – uno dei componenti della gilda ebbe la commissione da un maestro di disegnare una carta geografica, di disegnarla infantilmente, che potesse apparire opera di un suo scolaro figlio di una notabilità cittadina e tale da dare soddisfazione al genitore e lodi all’insegnante. Assento il nostro artista dallo studio, gli altri aggiunsero sulla carta già compiuta nomi di città e di fiumi, i più arrischiati che si potessero immaginare, sì che specialmente la Russia era diventata una regione davvero poco onesta, non dimenticando poi di mettere nella pipa dell’amico posata al solito sul tavolo un po’ di sale in luogo di tabacco. Si può immaginare la meraviglia prima, l’irritazione poi del maestro, quando gettati gli occhi sulla carta, lesse l’inaspettata geografia e si può immaginare l’irritazione dell’artista per il rimprovero avutone, sì che, tornato allo studio e accesa la pipa, le sue irate parole parvero davvero di fuoco, accompagnate da un vivace schioppettìo di scintille.
Ecco alcune delle cose fatte dagli artisti dell’Aemilia Ars.
Uno dei mobili disegnati per l’appartamento Pizzardi con tralci di acero, nella parte inferiore, ad intarsio ed intagli di orchidee nell’alto.
Un altro mobile per il Console Kluftinger dove la finezza delle cornici, l’uso sapiente degli intarsi e dei cuoi bulinati, raggiungono un grado di grande perfezione.
Nello scrigno di sopra, dove a guardia della serratura sta un piccolo granchio, si svolgono reminiscenze Wagneriane – il motto dice “l’onda non cela l’oro del Reno, ma i tesori del cuore” nelle candeliere si rincorrono farfalle e nei fondi si aprono gruppi di rose.
Una delle belle tra le coperture e rilegature di libri dell’Aemilia Ars è questa, disegnata da De Col, divenuta poi l’ex libris del Comitato per B.S.A., una delle porte della città, nella sua forma così caratteristica fiancheggiata da platani – nel fondo, le 2 Torri – Bologna “Madre delle leggi”.
I gioielli furono prima riprodotti dagli antichi e specie da quelli dipinti in quadri del Francia, o al collo delle S. Cecilia di Raffaello o delle dame venete del Carpaccio e del Mantegna; poi divennero più nuovi, più mossi, animati sempre da un’espressione o da un affetto. Il piccolo giogo alato, dal quale pendono le perle, è, come dice il motto nel verso del gioiello, il giogo dell’amore, che per fortuna è dolce a portarsi, o, almeno, dovrebbe esser dolce “amor dulce jugum”. Oro, smalto, perle e rubini compongono la porta di Bologna auspicante ad una giovane sposa pace nella sua casa, concordia nella famiglia, fecondità nell’amore.
Splendidi per concetti ed esecuzione il martello e la cazzuola, d’oro e avorio eseguiti in occasione del giubileo di Leone XIII. Nel centro della lama della cazzuola sta il nome di Gesù e la croce: attorno la corona di spine si trasmuta in rose, piegata ad allacciare il manico dello strumento.
Ricordate i versi di Dante?
“…ho veduto tutto il verno prima
il pruno mostrarsi rigido e feroce,
poscia portar la rosa in su la cima” ?
Così Gesù fu prima dolore poi resurrezione: così avvenne la redenzione.
Nel 1896 le signore bolognesi donarono ad Elena di Montenegro, che veniva in Italia sposa del nostro Re, allora principe di Napoli, il cofano, che qui presento. Le mura di Bologna sono imbandierate a festa, alte nel cielo le aquile di Savoia e Montenegro, la croce e i gigli bolognesi – rameggia l’ulivo “per la pace dell’itala gente” – rose e margherite e suoni e canti di gentili fanciulle accolgano e allietino la benvenuta tra noi.
Di qualche anno dopo è l’altro cofano, donato dalla Regina Margherita alla corazzata che porta il suo nome, per custodire la dandiera di battaglia. Nei pannelli di cuoio sono raffigurati gloriosi momenti della marina sabaudo-italica – in questo lato, dietro la statuetta di bronzo, che rappresenta la nautica, sfila la galera di Amedeo VI vittoriosa in oriente. Una bne nota gentildonna bolognese mise a profitto dell’Aemilia Ars, specialmente per la rinascita e lo sviluppo dell’industria dei merletti, tutto il suo ingegno, la sua energia, la sua tenacia – e vi riuscì mirabilmente. Trovato e ringiovanito un punto antico bolognese, esso fu piegato alle più svariate forme – rappresentazioni antiche, come le quattro stagioni tratte da un libro di disegni del cinquecento – composizioni fantastiche ad animali e motivi geometrici, come il collo che riportò il 1° premio nel concorso internazionale di merletti tenuto a Liegi nel 1904 – fioriture più moderne, dove fu applicato il principio floreale: piante di cicuta salgono tortuosamente fino a sbocciare in grappoli di fiori – disegni modernissimi sia che rappresentino l’episodio di Chantecler, che s’illude cantando far nascere il sole, dietro sogghigna il maligno rospo – sia che rappresentino lo stemma di Parigi, gran nave che potrà ondeggiare, ma non sommergersi “fluctuat nec mergitur” – e mille e mille altri pizzi da tovaglie, cuscini, centri, ceste ecc. sparsi ora, si può dire, per tutto il mondo.
All’Esposizione di Torino era esposta – e fu acerbamente criticata – una piccola fontana modellata dal Romagnoli e suggerita da quei piccoli bacini d’acqua montana, dai quali un sottile rivo scende e corre a formarne altri più bassi e quasi in essi si rispecchia l’anima della montagna, coronata di anemoni.
Belle le scuole di Budrio, disegnate da Tartarini, e immuni dei barbarismi importati dal settentrione e malamente copiati da frettolosi costruttori di case o palazzi. Tale è l’eleganza e la vivacità dei fregi, la distinzione delle linee, la serenità dell’insieme, che non mi meraviglierei se i fanciulli di Budrio, già da tempo evoluti e coscienti, entrassero più volentieri nel tempio della loro Minerva, che perdersi a correre o giocare nei vicini viali ombrati, e ciò mi pare probabile dopo che il Ministro Credaro ha detto che l’arte è una religione e per di più democratica.
Una delle ultime cose pensate dalla gilda ed eseguite dal Casanova, che nelle pitture del Santo di Padova sta per abbandonare del tutto gli ultimi ricordi di vecchi stili per non conservare di questi che l’intonazione generale, è la sala dei matrimoni nel palazzo Comunale, dove il motivo fondamentale, svolto con somma perizia, è l’intreccio di rose, garofani e fiori di arancio. Io credo che i motti allusivi alla concordia famigliare, al soffrire per amore, all’essere prudenti per amore ecc. o non siano letti da molte coppie, che lì vengono per essere unite dal codice, o siano presto dimenticati!
Durante questi ultimi anni l’arte, che vi ho descritto alla meglio, a poco a poco è stata dimenticata, soffocata, sepolta – S. Ignazio ha trionfato e mi pare vederlo in cielo rinfoderare la spada collo sguardo a S. Francesco, che umile si ritira nelle sue opinioni.
Il fatale esempio di grandi artisti stranieri, ai quali molto può essere perdonato e permesso, perché molto hanno studiato, ci ha procurato un’invasione di statue e quadri di indemoniati, contorti, epilettici – Quale differenza tra l’artista che si attarda su un fiore, che si commuove ad un tramonto, dai giovani di adesso, che, se scultori, lottano a pugni colla creta, se pittori, trovano la tela troppo esigua per i loro grandi gesti e le confuse pennellate. Ridicola è questa mania di copiare Michelangelo, strano questo improvviso ritorno del barocco, così difficile ad essere trattato da chi non sa il disegno, almeno quanto i nostri grandi decoratori del ‘600.
E’ facile così comprendere come i restauri, per i quali dieci anni fa sorse un Comitato per iniziativa del Conte Francesco Cavazza e per i quali forestieri, che visitano Bologna, hanno parole di vivissima lode, sieno anch’essi passati sotto alle forche caudine della moda e criticati e derisi.
Dal Comitato per Bologna storico-artistica molti gridi di salvezza sono usciti contro tentate deturpazioni e rovine, molte esortazioni affinché nelle nuove opere edilizie non venissero svisate le caratteristiche preziose della città, molti progetti e controprogetti e memorie e pubblicazioni – Ma non posso io ora parlare del decennio del Comitato, di cose, cioè, così recenti da essere nella memoria di tutti: permettete invece che accenni a quanto non è stato ancora fatto, a quanto gli artisti del Comitato, che sono sempre quelli dell’antica gilda, hanno ancora nel cuore e in cima ai loro desideri.
Di case private, bella per proporzioni e ricca di storia è la Casa Ghiselli-Vasselli ora Isolani, alla quale furono nel ‘700 asportati gli ornamenti in cotto delle finestre, pur rimanendone traccia sicura sì che facile cosa sarebbe ridurre la facciata alla nobile forma, come aveva in sul finire del ‘400 – in essa alloggiò Gastone di Foix, il bianco cavaliere, pochi anni prima della battaglia di Ravenna, dove lasciò la sua fiorente gioventù.
Avverrà mai che la piazza silenziosa dove si radunano tanti diversi ricordi e stili veda restituita al decoro antico la lunga distesa delle case Tacconi, ove ad una facciata cinquecentesca dipinta a putti e delfini sta accanto quella gotica finissima di terrecotte somiglianti a quelle del Palazzo degli Anziani e un po’ anche a quelle della Mercanzia?
Mi sovviene aver letto come, mi pare nel ‘600, un certo Claudio Betti, seccato e indispettito dal continuo scampanio del vicino S. Stefano, caricò una spingarda da una di queste case e sparò contro il campanile disturbatore: sì che ebbe non poche noie dal Reggimento.
Quello della Porta Mazzini, che tutti si ricordano aver visto nella veste settecentesca, la più grande delle porte di Bologna, sorta a capo del borgo di Strada Maggiore citato da Dante, protettrice delle scorrerie giovanili che il Petrarca e i suoi amici studenti compievano, entrando ed uscendo di notte attraverso i palancati di legno, è rimasto a mezzo: l’arco acuto, così bello nella sua semplicità, chiede un coronamento: così aveva proposto il Comitato, appoggiandosi a documenti e ragioni storiche. Alla fine del ‘400 fu costruita la rocchetta attorno al piede della Torre Asinelli – vi si annidarono poi, rosicchiando la base della torre, i sonori battirame di buona memoria. Quante ire si sono appuntate contro gli umili ed innocui artefici e contro la rocchetta, parte così integrante dell’aspetto della Piazza Ravegnana! I battirame sono spariti ma la rocchetta rimarrà e forse un giorno noi la vedremo come la vedevano i corteggi bentivoleschi che passavano di lì così sovente – Piccole botteghe all’antica ove siano esposti prodotti d’industrie paesane, brillante l’Araldica a coronare il piccolo castello.
Quando nel secolo XVII fu costruito l’attuale tetto di S. Giacomo, oramai logoro e cadente, fu commesso un gran delitto. A chi s’inerpichi fin lassù e strisci fra i legni e gli antichi oscuri, si scopre la vista di quattro grandi cupole ricoperte di embrici e tegole – Da quale lontano desiderio d’oriente era animato l’architetto delle cupole singolari? Voleva forse gareggiare di fantasia cogli artisti che da basso nel fianco della chiesa avevano disposto un elegante rincorrersi di archi? Quando, e sarà presto, le cupole potranno rivedere di nuovo la luce, si avrà dall’alto delle nostre colline un inatteso contributo di bellezza al panorama della città.
Ma lo studio, nel quale il Comitato aveva posto ancora maggior impegno ed affetto, è quello degli edifici comunale, che recingono piazza centrale di Bologna – Si era vagheggiato il loro completo restauro, per offrire ai forestieri, che specialmente quest’anno visitano l’Italia, quanto di più bello e caratteristico e di immediato significato Bologna ha nel suo centro – Era sembrato che l’esposizione dei suoi gloriosi edifici politici, ricomposti a ragione di arte e di storia, potesse valere più di qualunque altra esposizione di legno che d’altra parte Bologna nel momento non può neanche organizzare. E non si dica che la torre dell’orologio è più bella così, colla sua squallida mostra, di quando attorno a un fuoco centrale, da cui Copernico prese la 1° idea del suo sistema, ruotava la terra e il sole e le costellazioni tutte e vi erano scolpiti i quattro Evangelisti e davanti alla Madonna in trono passava allo scoccar delle ore l’ingenua processione di un angelo colla tromba, dei 3 Magi.
E non si dica che la facciata del Palazzo d’Accursio, ora della Provincia, così lavata e lisciata nei restauri dell’88, avrebbe acquistato di interesse dalla ricostruzione fedele del famoso balcone degli Anziani dal quale si dichiaravano le guerre, si pubblicavano le paci, le capitolazioni, le vittorie, sormontato dalla statua dorata del terribile Bonifacio VIII.
Alle finestre, così bene architettate dal Fieravante nel 1425 in maniera tedesca, lodate fin da Jacopo della Quercia, poco amante di stile tedesco, si pensò di applicare un traforo, una bifora analoga a quella delle finestre della Mercanzia, leggiadra e intagliata, come le terracotte degli ornamenti.
Il Comitato pensò anche e sognò il completamente della facciata del Palazzo del Popolo, e a tale progetto dedicò lunghi studi e cure amorose. Molto si è fatto attorno al grande palazzo, che è come il cuore della città: e molto resta da fare. Ma basta di ciò: molti membri della gilda di cui brevemente vi ho narrato nascita e vita, daranno ancora speriamo per molti anni l loro attività ad accrescere il decoro della nostra Bologna, della città, come scrisse con arte magnifica il Carducci, dalle solenni strade postiate che paiono scenari classici e le piazze austere fantastiche solitarie ove è bello perdersi pensando nel vespero di settembre o sotto la luna di maggio, e le chiese stupende onde saria dolce, credendo, pregare di estate, e i colli ov’è divino, essendo giovani – amare di primavera, e la Certosa, in alcun lembo della quale, che traguardi dal colle al verde immensi pianori, si starà bene a riposare per sempre.
Credendo che la lunga pratica di restauri e il plauso concorde finora ricevuto fossero un titolo per avvicinarsi, con grande paura, sì, ma avvicinarsi al monumento, che per uno strano fenomeno d’ottica artistica è diventato tutt’a un tratto il più meraviglioso e straordinario edificio del mondo: il che induce qualcuno, sulla falsariga dei romantici tedeschi, non che a fremere di sdegno se il monumento si toccasse a desiderare fasci di edera e corvi gracchianti e raggi di luna sulla reliquia architettonica bentivolesca – Di questi giorni il palazzo del Re Enzo sembra si crolli attorno le grette case, che volevano soffocarlo; le piccole diatribe, gli strascichi dell’eterna lotta tra S. Francesco e l’Accademia, non arrivano a salire le scure muraglie.
Un anno fa, a questo stesso posto io parlai a lungo del Palazzo del Podestà e scherzai sui progettati merli: ahi! Che il giudizio superiore ha fieramente condannati: io non so se un’altr’anno qui terrò una conferenza – vi prometto di non parlare mai più di merli.
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