Compianti e Pietà a Bologna
La rappresentazione della nascita e morte di Cristo sono, ovviamente, gli eventi evangelici che da sempre godono della maggiore fortuna iconografica, sintetizzando in un’immagine gran parte della rivoluzionarietà del messaggio cristiano. In particolare le scene che ruotano intorno alla morte di Gesù, la cui traduzione visiva attinge soprattutto ai Vangeli di Luca e Giovanni, esprimono una forza simbolica ed un’intrinseca spettacolarità scenica che hanno garantito loro un ruolo di assoluta preminenza nell’impiego dell’arte sacra come “discorso per immagini”, accessibile a tutti i credenti, specialmente ai meno edotti.
Ogni società, ciascuna classe sociale sviluppa le proprie peculiari forme di espressione artistica e narrazione, diverse a seconda dei luoghi e del pubblico di destinazione. La poesia popolare, le recite attoriali, l’allestimento di composizioni visive anche di un certo impegno e dimensioni sono tra i principali veicoli della tradizione popolare: le Laude drammatiche duecentesche – una sorta di teatro sacro di strada, per semplificare – e l’allestimento francescano del Presepio ne sono tipiche espressioni, stimolanti potentemente la pietà popolare. Ponendosi per certi versi come cristallizzazione delle rappresentazioni recitative (per lo più ad opera delle Confraternite) solitamente svolte in periodo quaresimale, i gruppi scultorei in legno, argilla o cartapesta rappresentanti scene della nascita o della morte del Salvatore incontrarono con la fine del Trecento sempre maggior favore, unendo le qualità comunicative e simpatetiche del teatro alla perpetuità dell’arte plastica.
Bologna, è cosa nota, ospita una numerosa serie di Pietà e Compianti in terracotta, in aderenza alla consuetudine che vede questa specifica forma d’arte sacra particolarmente diffusa nel XV-XVI sec. nel nord Italia, ed in particolare nella Pianura padana, laddove invece l’arco alpino avrebbe poi sviluppato, nel corso del Cinquecento, la formula ben più scenografica dei Sacri Monti.
È tuttavia necessario distinguere innanzi tutto tra Pietà e Compianto, due iconografie spesso confuse. Con Pietà si intende il gruppo di Maria Vergine che abbraccia e sorregge sulle gambe il corpo morto del figlio appena deposto: è una composizione serrata, tendenzialmente in forma piramidale, di grande intimità perché ruota intorno all’unione fisica ed emotiva delle due figure, cui solo di rado ne sono affiancate altre. Con il nome di Vesperbild questa iconografia è quella generalmente diffusa fin dal XIV sec. nei Paesi germanici, donde per l’appunto la nostra Penisola ed il resto d’Europa la trassero, progressivamente adottandola in modo quasi esclusivo ma addolcendone le tradizionali rigidità posturali e facendo slittare l’espressione del patetismo dalla mimica facciale a quella gestuale: un’evoluzione, questa, cui Michelangelo diede un apporto fondamentale con la sua celebre Pietà vaticana.
Diverso è il caso del Compianto, chiamato anche Mortorio, che rappresenta Cristo già trasportato e deposto nel sepolcro, ove per l’appunto viene pianto circondato dalla Vergine, dalla Maddalena, da Maria di Cleofa ed una terza Maria, dall’apostolo prediletto Giovanni Evangelista, da Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea (che si erano adoprati per deporre Gesù dalla croce) prima di sigillarlo. Questa iconografia, che taluni ipotizzano esser stata introdotta dai bizantini, è quella tradizionalmente diffusa nella nostra Penisola prima dell’avvento del Vesperbild e per molti versi è il naturale risultato dell’incontro della tradizione del presepio con quella delle Laude drammatiche. Proprio in ragione della natura della scena, spesso i mortori erano allestiti entro grotte artificiali, la maggior parte delle quali sono oggi andate perdute, ospitate entro nicchie o cappelle nelle chiese o nel segreto dei conventi.
Dei molti Compianti e Pietà presenti a Bologna, più o meno noti, quello di Niccolò dell’Arca per Santa Maria della Vita è certamente il più celebre ed impressionante, oltre che fondamento e metro di raffronto per tutte le composizioni successive. Pur non essendo il più antico, fu tuttavia il primo ad inaugurare una formula (la composizione in terracotta policroma a grandezza naturale, assai patetica e teatrale) alla quale tutti gli scultori si adeguarono negli anni a seguire. Donde l’abbia tratta è difficile a dirsi ed oggetto di decennali dibattiti tra gli storici dell’arte. Rimane però il fatto che fece scuola a Bologna e dintorni fino almeno alla metà del Cinquecento, venendo poi progressivamente sostituita dalla Pietà.
Quello che qui segue è un piccolo itinerario tra le sole opere scultoree che in città hanno mirabilmente marcato nel corso dei secoli affermazione e declino di questa tipologia: non ambisce certo alla completezza (si sono selezionate solo le principali), né ad una accurata disamina delle loro vicende storiche, e soprattutto rinuncia a metterle in relazione con altri straordinari esempi coevi diffusi principalmente a Modena e provincia ma un po’ in tutta Italia, rispetto ai quali la produzione bolognese si pone senza dubbio tra i vertici assoluti. Vuole essere tuttavia un invito a percorrere a piedi questa splendida città, alla scoperta di alcuni tra i suoi moltissimi tesori tanto preziosi quanto poco appariscenti.
Alessio Costarelli
Compianto di Santa Maria delle Grazie
In questa chiesa fuori porta San Felice è tutt’ora conservato entro una nicchia laterale un antico gruppo scultoreo in legno, originariamente policromo, ivi condotto nel 1921, tratto dalla parrocchiale di Santa Maria della Viola a Borgo Panigale, ove era stato collocato nel 1877; prima, se ne ha testimonianza in una celletta ad uno dei capi del duecentesco ponte sul Reno, poco distante.
Rilevando aggiornamenti sulla scultura di Benedetto Antelami e delle più recenti esperienze scultoree pisane, Rezio Buscaroli datava il gruppo alla seconda metà del Duecento, ritenendolo di fattura toscana; invero è più probabile risalga al pieno Trecento e soprattutto non è strettamente necessario pensare ad un autore non locale. Resta tuttavia che «nell’ambito della scultura del tempo e del secolo seguente, tutta assorbita dalle pietre tombali e dai monumenti funerari ai lettori dello Studio, [quest’opera rappresenta] un raro esempio di espressione religiosa ed umana: sì che, ponendoci mentalmente nella sua atmosfera, possiam vedere profilarsi la produzione così caratteristica delle città emiliane, Modena, Bologna, Ferrara, delle Pietà in terracotta, sceneggiate a gruppi di figure» (Buscaroli).
Compianto di Santa Maria della Vita
Grandemente famoso all’epoca della sua realizzazione, la sfortuna critica che per lungo tempo colpì il suo autore, l’apulo Niccolò di Antonio detto Niccolò Dell’Arca, ne portò perfino a dimenticarne la paternità, assegnandola variamente ad altri illustri nomi. Recuperatane la memoria alla fine dell’Ottocento, il dibattito si spostò successivamente sulla datazione, che Cesare Gnudi assegnava agli anni Ottanta del Quattrocento ma che James Back e Massimo Ferretti hanno definitivamente dimostrato essere il 1463, compiuta in una bottega presa in affitto entro la Fabbrica di San Petronio.
Ospitata senza dubbio tra il 1502 ed il 1586 in una nicchia entro la chiesa della Vita «acanto la porta che va nelle Pescarie», la sua ambientazione doveva probabilmente imitare una grotta, non si sa se con finte concrezioni rocciose in gesso o, più probabilmente, dipinta.
Il gruppo era policromo – come spesso accadeva – ma ben poco resta dell’originaria colorazione, e manca della figura di Giuseppe d’Arimatea, forse distrutta nel 1506-08 poiché si suppone avesse le sembianze di Giovanni II Bentivoglio; altri studiosi ritengono che invece sia proprio la statua sopravvissuta a rappresentare Giuseppe d’Arimatea. Anche l’originaria disposizione delle statue è da molti anni oggetto di dibattito, senza che al momento si possa giungere ad una soluzione definitiva e condivisa.
Proprio per la sua eccezionalità nel panorama cittadino, questo Compianto – stranamente non citato da Vasari, così come dalle altre più antiche guide bolognesi (Lamo e Cavazzoni) – si pose presto quale metro di raffronto per tutti gli altri susseguitisi nel tempo; rispetto ad essi, tuttavia, il gruppo di Santa Maria della Vita mantenne sempre una drammaticità particolarmente accentuata, peculiare e progressivamente abbandonata dal più moderato dolore messo in scena dalle altre opere consimili ma cronologicamente più tarde. La sua eccezionalità espressiva la rese anzi oggetto di proverbialità popolare: «la par omna dal Mari d’la Vetta» si soleva dire a fine Ottocento di una donna particolarmente brutta, mentre i bambini irrequieti venivano minacciati di essere portati dalle Marie, quasi fossero Streghe («At port’ al vadr al burdi!»).
Compianto di San Petronio
Probabilmente modellato negli anni Novanta del Quattrocento (ma secondo taluni studiosi durante il primo decennio del Cinquecento) da Vincenzo Onofri – illustre plasticatore bolognese attivo entro la cerchia bentivolesca – di questo celebre Compianto non si conosce l’ubicazione originaria né la committenza, tuttavia senza dubbio di alto profilo e molto probabilmente legata alla Fabbriceria della Basilica. Dei molti presenti in città, questo è il gruppo che più d’ogni altro raccoglie l’eredità figurativa di quello di Santa Maria della Vita: il legame con l’opera di Niccolò Dell’Arca è tanto forte ed evidente che già Malvasia (e così per lungo tempo dopo di lui) lo attribuiva allo scultore apulo; eppure, benché il modello di Niccolò sia in effetti imprescindibile, vi si sostituisce qui un’idea meno melodrammatica e più rarefatta della rappresentazione del dolore, nonché un più marcato rapporto con l’antichità classica (il San Giovanni sembra quasi un senatore romano togato).
Questo soggetto non fu certo un unicum nella carriera di Onofri, che ad esempio ne realizzò un altro (non si sa se precedente o successivo), sempre in terracotta, per una chiesa milanese: ne rimane tuttavia ben poco, la sola testa di Cristo appoggiata sul cuscino, conservata entro la chiesa di San Vittore al Corpo. Maggiori raffronti possono invece essere operati con la lunetta in terracotta patinata di bianco dell’altare di Sant’Eustachio in Santa Maria dei Servi, opera firmata e datata 1503: questa raffigura un Compianto, in un momento iconografico abbastanza indeterminato, al mezzo con il Trasporto al sepolcro (visibile sulla sinistra); a pochi anni di distanza dal gruppo petroniano, l’influenza di Niccolò pare non essersi granché ridotta, ed anzi dall’intensa espressività dei personaggi al panneggiare arioso e convulso ed in alcune parti spezzato, l’opera sembra riproporlo con ancora più fedeltà.
Compianto di San Pietro
Di tutti i Compianti presenti in città, quello realizzato da Alfonso Cittadella detto Alfonso Lombardi ed oggi nella prima cappella a destra della cattedrale è senza dubbio il più noto ed importante dopo il gruppo di Santa Maria della Vita: lo è non solo per qualità e dimensioni, ma anche perché ad oltre mezzo secolo di distanza seppe aggiornare l’illustre esempio quattrocentesco, imponendosi a sua volta come nuovo modello di riferimento.
Gran parte delle verità circa la sua realizzazione sono ancora oggi difficili a stabilirsi, a cominciare dalla datazione, che i più stabiliscono in anni compresi tra il 1522 ed il 1526. Anche la committenza fa insorgere non pochi interrogativi: l’opera era infatti allocata entro le mura del monastero di Santa Margherita, un cenobio di clausura di monache benedettine all’epoca non troppo ricco né di particolare importanza. Non citato da Pietro Lamo né da Vasari, di esso si cominciano ad avere notizie certe solo a partire dal 1584, allorquando il cardinale Gabriele Paleotti convinse le pie donne a cederglielo affinché lo collocasse in cattedrale, e specificamente nella cripta, ove si salvò dal disastroso crollo del 1599. Nel corso dei secoli ha più volte cambiato posto entro la nuova sede ed anche le sue statue suscitano dubbi ed interrogativi circa la loro originaria disposizione. Mutilo, all’inizio del Novecento furono apposte alcune integrazioni in cemento: il braccio pendente di Maria, la testa e buona parte del corpo di Cristo; anch’esso, scrive Malvasia, era «ben colorito» ma di quella policromia oggi non rimane quasi nulla.
Pietà del Monte di Pietà
Nella sua Graticola di Bologna (1560), la prima guida della città a noi nota, Pietro Lamo descrive un «Cristo morto a seder in bracio a un angiolo di tera cota finto di masegna […] opera notabile» posto in un nicchione sopra la porta d’ingresso del Monte di Pietà, l’edificio porticato a destra della facciata di San Pietro. È opinione comune che l’opera sia andata distrutta e che la pietà oggi visibile sia scultura più tarda di altro autore: Masini e tutti gli altri dopo di lui (da ultimo Eugenio Riccomini) la dicevano dello scultore tardomanierista Gabriele Fiorini, mentre Gian Piero Cammarota la pensa successiva al 1576 (anno della ricostruzione del portico di facciata) e di un seguace di Alessandro Menganti. Invece Andrea Bacchi, rilevando un rapporto di parentela stilistica con il Compianto di San Pietro equivalente a quello che sussiste con il San Martino a cavallo nella lunetta del portale laterale esterno della chiesa di San Martino, ritiene che questo possa essere ragionevolmente considerato il medesimo gruppo plastico ammirato da Lamo e quindi riconducibile a Manzini, anche se di anni più tardi, in quanto pare «intelligentemente aggiornato su vari fatti pittorici (da Amico Aspertini a Girolamo da Carpi a Girolamo da Treviso) nonché, sembrerebbe, sull’Assunta oggi in San Petronio»; resta che, «disponendo soltanto del San Martino, rimane difficile confermare la veridicità del riferimento a Manzini» (Bacchi).
Compianto di Santa Maria Maddalena
Già nella prima edizione delle sue Pitture di Bologna, data alle stampe nel 1686, Carlo Cesare Malvasia descrive con molte lodi questo Compianto, realizzato in terracotta policroma pochi anni prima (intorno al 1682-83 ca.) per la chiesa di Santa Maria Maddalena da Giuseppe Maria Mazza, il più importante scultore e plasticatore bolognese d’età barocca; per la chiesa, su commissione dell’allora priore Pietro Mengoli, l’artista aveva plasmato anche un Angelo Custode ed in San Pietro in Cattedra, purtroppo andati distrutti nella seconda metà del Settecento durante i lavori di ampliamento della chiesa.
L’originaria collocazione dell’opera ci è sconosciuta e non è nemmeno sicuro che trovasse luogo entro la navata; l’attuale disposizione, nella seconda cappella a sinistra, risale infatti al 1925. Stilisticamente vicina agli stucchi della Cappella Manzoli in San Giacomo Maggiore, di poco precedenti, l’opera mostra una straordinaria eleganza e compostezza figlia del classicismo post-carraccesco oramai affermatosi nella Bologna di quegli anni, ma proprio per questo risulta fortemente innovativa rispetto alla locale tradizione dei Compianti, per certi versi portando a compimento quel processo di moderazione emotiva cominciato oltre un secolo e mezzo prima per mano di Alfonso Lombardi.
Eccezionalmente, dell’opera si è conservato il bozzetto in terracotta policroma, proprietà delle Civiche Collezioni d’Arte ed in deposito presso il Museo Davia Bargellini. L’immagine qui sotto inserita è proprio del bozzetto, in attesa che il lungo restauro dell’opera si concluda e consenta una nuova fotografia.
Pietà di San Giuseppe dei Cappuccini
Nel 1727 Angelo Gabriello Piò eseguì una Pietà con San Francesco in terracotta policroma per l’antica sede dei Cappuccini a Monte Calvario, vicino San Michele in Bosco, collocata come da tradizione entro una cappella a foggia di grotta allestita e dipinta da niente meno che Ferdinando Galli Bibbiena. Con la soppressione di convento e chiesa in età napoleonica, il gruppo fittile fu traferito in Certosa, entro una sala poi costruita da Angelo Venturoli nel 1816. Solo nel 1844 il Cardinale Oppizzoni restituì l’opera ai Cappuccini, affinché la ponessero in una cappelletta esterna alla loro nuova chiesa di S. Giuseppe, un edificio più antico da essi fatto completamente rinnovare a Filippo Antolini. Infine, nel 1876 il gruppo trovò luogo entro la chiesa, laddove ancora oggi sta. La policromia originale è purtroppo largamente danneggiata, coperta o sostituita da pesanti riverniciature. Una versione a scala ridotta di questa Pietà si trova nella chiesa di Santa Maria della Vita.
Angelo Piò fu artista prolifico nel genere e di opere di simile soggetto se ne potrebbero citare diverse altre: tra quelle liberamente accessibili al pubblico, sulle quali non ci si soffermerà, basti ricordare quella in cartapesta conservata entro la Cappella del Crocifisso nella chiesa della Madonna di Galliera e quella ben più piccola in terracotta policroma in una teca nella sagrestia della parrocchiale di Sant’Isaia; ma soprattutto la grande e splendida Pietà entro il complesso di Santo Stefano.
Compianto di San Luca
Nonostante la sua alta fattura e l’importante sede che lo ospita, del piccolo gruppo in terracotta policroma nella Basilica di San Luca non si conosce pressoché nulla. Ivi pervenuto ne 1980 per generoso dono del Sig. Ignazio Pelagalli, da allora è custodito in una teca, a paliotto di un altarino a sinistra della seconda cappella a destra. Fin dagli anni Sessanta ha tenuto banco la prima, dubbiosa attribuzione di Eugenio Riccomini a Gaetano Gandolfi, ma negli anni Novanta Donatella Biagi Maino lo ha espunto dal catalogo di Gaetano, proponendo come autore il giovane Giacomo De Maria. Al di là dei dibattiti stilistici, rimane l’ottima qualità tecnica del gruppo, purtroppo in non eccelso stato di conservazione. Particolare la scelta di questa iconografia con Cristo in grembo a Nicodemo (o Giuseppe d’Arimatea?) e la presenza di un frate, a testimoniare probabilmente la commissione da parte di un ordine monastico.
Compianto del Museo Davia Bargellini
Al di là del grande pregio estetico di questo piccolo gruppo fittile, comunemente attribuito (pur con generali riserve) alla mano dello scultore bolognese Petronio Tadolini (1727-1813), l’eccezionalità dell’opera sta nelle sue ridotte dimensioni, che suggeriscono il suo essere un “modello da stanza”, portatile, tutt’altro che frequente tra le testimonianze oggi pervenuteci, ma certo non così raro al tempo. Di esso balza agli occhi la sua apparenza «castigata e industriosamente analitica […] la condotta studiata [che] sembra discendere da un’inveterata attitudine accademica» (Grandi), in ragione della quale Malaguzzi Valeri lo aveva inizialmente datato al XVII secolo. Tuttavia, il riflettere «in modo non banale sui grandi modelli della plastica rinascimentale» (Grandi) lo colloca senza dubbio nella seconda metà del Settecento, mentre le sue ridotte dimensioni (comunque non miniaturistiche) consentono di apprezzare una definizione per i dettagli ben maggior di quanto non fossero in genere disposti a fare gli artisti nelle opere di maggiore grandezza.
Pietà di Santa Maria dei Servi
Questa piccola Pietà in bronzo, ospitata dal 1980 nella Cappella del Crocifisso ai piedi del famoso Crocifisso in cartapesta su stampo di Giambologna, fu realizzata e donata alla Basilica di Santa Maria dei Servi dallo scultore bolognese Luigi Enzo Mattei, oggi universalmente noto quale autore dell’Uomo della Sindone, nonché del portale centrale di Santa Maria Maggiore a Roma. La scultura, piccola ma incisiva, è un riuscito saggio di arte sacra contemporanea e mostra lo stile graficamente patetico e talora “spigoloso” tipico di questo artista, anche se più frequente nel disegno e nell’incisione, giacché la maturità stilistica lo ha progressivamente condotto nella plastica e nella scultura bronzea ad ingentilire i contorni. Qui invece, nelle carni scavate dal dolore e dalla sofferenza, nel corpo di Cristo innaturalmente composto e nel volto straziato della Vergine pare compendiarsi tutta l’espressività delle antiche Vesperbilder tedesche, di cui si fa tarda epigone, senza esserne una semplice copia, ma anzi con una profonda consapevolezza del secolo cui appartiene.
Una guida completa in volume a questi monumenti presenti sul territorio cittadino (Compianti e Pietà a Bologna. Guida storico-critica e bibliografica) è in fase di realizzazione a cura di Alessio Costarelli e Silvia Massari.